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FIGHT CLUB Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 2 dicembre 1999
 
di David Fincher, con Edward Norton, Brad Pitt, Helena Bonham-Carter, Meat Loaf (Stati Uniti, 1999)
 
Ci risiamo. Periodicamente, da quando nel 1915 NASCITA DI UNA NAZIONE di Griffith fu accusato di incrementare il numero dei linciaggi negli Stati del Sud oltre a quello degli appartenenti al Ku Klux Klan, la rappresentazione della violenza al cinema è stata ritenuta responsabile di molti mali della società. Gli stupri accompagnati dai motivi di "Cantando sotto la pioggia" di ARANCIA MECCANICA sono banditi ancora oggi dagli schermi britannici; TAXI DRIVER, RAMBO o ASSASSINI NATI di Oliver Stone sono stati trascinati in tribunale (nella causa ancora in corso dell'ultimo con buone possibilità, pare, di ottenere risarcimenti) da rei confessi, testimoni e parenti di vittime pronti a giurare sul nesso fra avvenimenti e personaggi di un film e le ricorrenti mostruosità degenerative della società e degli individui.

Del caso, chiacchierato al solito oltre la nausea di FIGHT CLUB bisogna distinguere tre aspetti. Il primo riguarda la polemica americana nei confronti della MPAA, la temutissima commissione di censura (gestita e finanziata dagli Studios stessi, il che dice già tutto) che con la sue decisioni può determinare le sorti commerciali di una pellicola. Dopo aver benevolmente assegnato al film fascisteggiante di David Fincher una R (i minori di 17 anni devono essere accompagnati) piuttosto del temutissimo NC-17 (vietato ai minori di 17 anni), la stessa non aveva appena trovato di più pudibondo (o venale?) che imporre alle quattro signore in topless di EYES WIDE SHUT una laida mascherina digitalizzata sulle parti nobili.

Ma è la seconda delle polemiche innescate da FIGHT CLUB che appartiene alla storia di sempre: un film come questo conduce all'emulazione, la natura dell'uomo è di per se stessa perversa? Perché non importa tanto che la vicenda (se cosi vogliamo definire quel pasticcio prolisso e confuso) sia quella dei quattro cazzotti (pallida copia, oltretutto, di quelli dello Scorsese di TORO SCATENATO; per non dire delle violenze ben altrimenti orchestrate dai Fuller, Peckinpah, Cimino fino ai Tarantino, Kitano, e via continuando all'infinito) che si rifilano in uno scantinato ad uso club privato due scriteriati per liberarsi da non si sa quale angoscia esistenziale. "Viviamo in un mondo disegnato dall'Ikea", dovrebbe esserne una particolarmente insopportabile. Ma il film non si alimenta soltanto di ingenuità, piuttosto di ben altre ed inquietanti ambiguità. Come quelle evocate dal mestiere di Bradd Pitt (anima nera bodybuildata del film; lo vedrete poco, perché le sequenze sono doverosamente immerse in un oscuro gorgoglio da stato placentario mal digerito e deriva urbana gotica modaiola): venditore apprezzato di saponette fabbricate con grasso umano, ottenuto con residui da liposuzione sottratti dalle immondizie di un ospedale. Stanchi di rigenerarsi rompendosi il muso a vicenda i due protagonisti (che sono poi uno solo, visto che Pitt il virilone non è altro che la faccia nascosta del male che si annida dentro ognuno di noi: figuriamoci - cosa che aveva compreso da un pezzo l'ultimo degli spettatori- in quella di un succube allo sbando come l'impiegato di assicurazioni interpretato da Edward Norton) fondano poi una milizia di rapati a zero vestiti ovviamente di nero, intenzionata a moralizzare e combattere gli eccessi della società dei consumi... Tutto è possibile, per carità (salvo forse dichiarare, come David Fincher, che lui al precedente dei campi della morte nazisti non ci aveva proprio pensato): anche mescolare nichilismo e marginalità, assenza del padre e anticapitalismo, attivismo rigeneratore e emasculazione, cult e New Age. Ma molto dipende da come.

Ed è proprio il terzo, e più importante aspetto di un film che conferma quello che, dopo la rivelazione clamorosa di SEVEN aveva lasciato temere il fumoso THE GAME: regista ambizioso e tecnicamente brillante, Fincher è un confuso, programmato ed ora equivoco inventore di discese all'inferno da psicologismo videogame. FIGHT CLUB è fotografato, ambientato, illuminato e sonorizzato con una certa cura. Ma è interminabile, confuso ed irritante. E gli attori sono diretti in modo qualunque: l'insignificante Brad Pitt e la smunta e cenciosa Helena Bonham-Carter non cadranno mai altrettanto in basso. Non sapremo mai se David Fincher ha voluto fare un film fascista; quello che è certo è che l'ha fatto male, noioso e perverso. Cinematograficamente è un po' la stessa cosa.


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